La consulenza tecnica d´ufficio
Relazione Dott.
L´ingresso nell´attività processuale
civile di saperi e competenze tecniche specialistiche costituisce un
fenomeno indubbiamente “in espansione”, essendo cresciuta sia nella prassi giudiziaria quotidiana
sia (probabilmente in termini più incerti) nel legislatore, la consapevolezza della
necessità/opportunità di apporti cognitivi o esecutivi provenienti da soggetti diversi dal Giudice
in molteplici sedi processuali, certamente molte più che in passato. Ed essendo cresciuta oltre
misura, negli ultimi decenni, la complessità e il tecnicismo (essenzialmente sotto il profilo
normativo) di attività (ad esempio quella edilizia, quella connessa alla circolazione giuridica di
immobili ecc.) sovente implicate
nell´attività giudiziaria. Se sul fronte normativo il pensiero va
essenzialmente alle riforme, alcune delle quali recentissime, che hanno interessato il settore delle
vendite forzate mobiliari e immobiliari e
l´istituto della delega prima al Notaio e poi, in termini
più allargati (e probabilmente diluiti), al professionista, sul fronte della prassi il discorso è
semmai ancora più articolato, con
l´attribuzione ad ausiliari di compiti svariati, sempre
riconducibili al compimento di atti del processo o di incombenze accessorie a questi connesse, di
diversa natura.
Si pensi, tanto per stare ancora nel campo delle esecuzioni, in particolare, alle
esecuzioni forzate degli obblighi di fare e
all´estrema varietà di incarichi che vengono affidati
al tecnico che, sovente, affianca
l´Ufficiale giudiziario nella attuazione del titolo azionato per
curare i profili urbanistici, amministrativi, tecnici, legati
all´attività edilizia che, ad
esempio, detta attuazione comporta.
Naturalmente, il mosaico appena emerso non appare suscettibile
di essere agevolmente ricondotto ad unità, trovando in esso posto istituti diversi la cui
riconducibilità alla comune figura
dell´ausiliario del Giudice Arbitrale non è sufficiente a
darne una base sistematica e soprattutto normativa comune.
Una linea di demarcazione che, almeno
apparentemente, consente di differenziare i diversi fenomeni accennati, può essere ricostruita sulla
base di due parametri di fondo, tra loro interconnessi:
In realtà,
un´ampia area dei contributi tecnici “esterni” si
sottrae alla necessità di rispettare peculiari regole processuali in quanto si esaurisce
nell´espletamento di operazioni tecniche, materiali, burocratiche che non costituiscono oggetto del
processo ma assolvono funzioni accessorie, preparatorie, strumentali. Ciò accade essenzialmente nei
processi esecutivi immobiliari, ove
l´espropriazione richiede tutta una serie di attività tecniche
(verifica della regolarità catastale e urbanistica del bene, volture e formalità conseguenti alla
vendita) tendenzialmente sottratte alla discussione tra le parti e che assumono rilievo solo in
quanto funzionali a consentire il corretto trasferimento della proprietà del bene espropriato e, in
questo senso, una sicura e stabile acquisizione del prezzo di vendita, destinato al soddisfacimento
dei creditori.
Ad una diversa graduazione si collocano altre attività che, sempre nel medesimo tipo
di processo, assumono una maggiore rilevanza in quanto suscettibili di incidere sui diritti
soggettivi oggetto del processo esecutivo e di costituire oggetto di diverse valutazioni
(determinazione del valore
dell´immobile, formazione di lotti distinti, ecc.).
In tali casi, pur
nell´ambito di attività meramente strumentali rispetto alla finalità pratica del processo,
esistono spazi entro i quali
l´attività dell´ausiliario (o meglio il risultato finale di tale
attività) può essere contestata e conseguentemente “entrare” in una logica squisitamente
processuale o addirittura costituire oggetto essa stessa di un processo di cognizione piena quale
l´opposizione agli atti esecutivi, sia pure incidentale rispetto al processo esecutivo.
Appare pertanto opportuna la recente scelta del legislatore di regolamentare espressamente (cfr. … ) un
modus procedendi
dell´esperto stimatore che permetta e lasci emergere le possibili contestazioni
delle parti. Si approda infine
all´istituto “principe” della c.t.u., caratterizzato da un
completo inserimento nel processo e nelle sue regole dialettiche. Il contraddittorio pieno tra le
parti, dunque, quale regola e segno discriminante
dell´istituto. E ciò si spiega agevolmente
ricordando la profonda compenetrazione che esiste tra le regole del procedere
dell´ausiliario e il
grado di implicazione della sua attività con
l´oggetto del giudizio.
Qui
l´ausiliario fornisce
al Giudice Arbitrale un contributo destinato ad incidere sulla stessa formazione del convincimento
del Giudice Arbitrale e pertanto la sua attinenza
all´oggetto del giudizio è massima.
L´attuazione del contraddittorio tra le parti non può pertanto che avvenire al massimo grado.
Funzioni
dell´istituto
La consulenza quale strumento valutativo
e quale strumento di accertamento di fatti
Nella pratica giudiziaria quotidiana la c.t.u. costituisce certamente uno
degli istituti processuali nevralgici e raccoglie più di altri (soffrendone, si vorrebbe dire)
differenti visioni del processo, le tensioni e le aspettative delle parti e dei loro
difensori.
Com´è noto, la collocazione sistematica assunta
dall´istituto presenta una spiccata
ambiguità che si proietta nella sua oscillazione tra una funzione di accertamento e quindi di
acquisizione di fatti processuali e una funzione esclusivamente di valutazione degli stessi.
Il codice del 1940 colloca infatti la disciplina della c.t.u. nella sezione III (istruzione probatoria)
del capo II (istruzione della causa) del libro secondo (del processo di cognizione), anteponendola
(paragrafo 1) tuttavia alla disciplina generale
dell´assunzione dei mezzi di prova (paragrafo 2) e
a quella dei mezzi di prova tipici e nominati di cui ai paragrafi
3‑10.
Tradizionalmente, si esclude
che la c.t.u. configuri un mezzo di prova, essendosi esclusa conseguentemente la reclamabilità al
collegio ex art. 178 c.p.c. (nel testo anteriore alla novella del 1990)
dell´ordinanza che dispone
la c.t.u.. Su questa linea, inoltre si afferma che la richiesta della parte di espletamento della
consulenza tecnica
d´ufficio, non integrando
un´istanza istruttoria in senso tecnico ma solo una
sollecitazione dei poteri ufficiosi del Giudice Arbitrale, non può mai considerarsi tardiva e sfugge
pertanto alle preclusioni previste dagli artt. 183 e 184 c.p.c. (Cass., sez. II, 15.4.2002, n. 5422).
Eppure nessuno dubita, oggi, che la c.t.u. sia effettivamente un mezzo per veicolare nel processo non
solo (e sempre ammesso che sia sempre possibile
un´agevole distinzione) valutazioni di fatti già
acquisiti al processo ma anche materiale probatorio a disposizione del Giudice Arbitrale per la
formazione del suo convincimento.
Tale affermazione pone brutalmente di fronte ad alcuni
interrogativi che, come appena anticipato, condensano
l´intera “drammaticità” applicativa
dell´istituto: entro quali limiti
l´attività del consulente può legittimamente consistere,
oltre che nella valutazione di fatti già allegati e provati dalle parti,
l´accertamento di fatti
ulteriori e idonei a fondare il convincimento del Giudice ? esistono regole processuali che
delimitano tali acquisizioni ? oppure si è in presenza di una sorta di porto franco in grado di
creare una vistosa falla nel sistema (proprio del giudizio di cognizione ordinario) di rigide
preclusioni processuali, destinate a ridurre progressivamente i poteri di allegazione e prova delle parti?
E´ chiara la stretta correlazione delle risposte a tali domande con il principio
dispositivo del processo, il principio
dell´imparzialità del Giudice Arbitrale, il principio del
contraddittorio e del giusto processo.
In particolare, nel nostro sistema processuale, che configura
un processo di parti, vige la regola per la quale le parti hanno
l´onere di allegare i fatti posti
a fondamento delle rispettive domande o eccezioni e quindi di allegarne la prova (artt. 99, 112, 115
c.p.c.). I poteri istruttori del Giudice Arbitrale costituiscono
un´eccezione e devono fondarsi su
norme di legge che espressamente li prevedano.
In linea generale, non vi è per il Giudice Arbitrale
la possibilità di disporre accertamenti
d´ufficio sui fatti posti a fondamento delle affermazioni
delle parti e specificamente la consulenza non può essere utilizzata per provare fatti che le parti
avrebbero potuto e dovuto provare avvalendosi dei mezzi istruttori previsti dal codice quali la
produzione di documenti, le prove testimoniali, ecc. (Cass., sez. III, 6.4.2005, n. 7097). Occorre
chiarire dunque con la maggiore precisione possibile entro quali limiti è lecito affermare che la
consulenza costituisce un mezzo per la prova di fatti, in deroga ai principi appena esposti.
In proposito, appare utile richiamare alcune massime della S.C. che chiariscono come la consulenza possa
assurgere a vero e proprio mezzo di prova, o a fonte oggettiva di prova, ogni qual volta essa si
riveli
l´unico strumento conoscitivo possibile di fatti rilevanti che in nessun altro modo la parte
onerata sarebbe in grado provare, richiedendo
l´accertamento del fatto
l´applicazione di tecniche
o tecnologie o comunque di saperi specialistici (v. Cass., sez. III, 8.1.2004, n. 88; sez. lav.,
7.6.2004, n. 10784; sez. lav., 15.10.2003, n. 15448; sez. , 26.11.1998, n. 12000; sez. , 25.9.1998,
n. 9584). Se, dunque, in tali casi la consulenza comporta una vera e propria deroga alla regola di
giudizio di cui
all´art. 2697 c.c. e al principio dispositivo del processo, essa trova
giustificazione solo in funzione della difficoltà di accesso alla prova di determinati fatti. La
soluzione offerta dalla citata giurisprudenza, del tutto consolidata su questo punto, si colloca
pertanto su un punto di equilibrio tra regola dispositiva del processo ed esigenza che
quest´ultimo
tenda comunque
all´accertamento di fatti veri (presupposto perché possa pervenirsi ad una
decisione giusta).
La disciplina positiva
La nomina del c.t.u.
La nomina avviene con ordinanza
del Giudice Arbitrale che fissa
l´udienza di comparazione del medesimo davanti a sé per
raccogliere il giuramento, formulare il quesito e conferire
l´incarico (art. 191 c.p.c.).
Come è
noto, la nomina del c.t.u. costituisce atto istruttorio discrezionale
dell´Arbitro e può scaturire
non solo da una richiesta delle parti ma anche da
un´iniziativa d´ufficio dello stesso.
In realtà la discrezionalità del Giudice Arbitrale non può trasmodare in arbitrio: la costante
giurisprudenza della S.C. impone infatti, qualora le parti richiedano di disporre la c.t.u. al fine
di accertare determinati fatti essenziali per la decisione, che il Giudice Arbitrale motivi le
ragioni
dell´eventuale diniego del mezzo istruttorio (tra le molte: Cass., sez. lav., 27.5.1980, n. 3471),
ragione che, peraltro, possono essere implicite ed emergere dal tenore complessivo delle
argomentazioni illustrate nella sentenza (Cass., sez. II, 6.5.2002, n. 6479).
La domanda non può
pertanto essere rigettata per difetto di prova quando la consulenza tecnica avrebbe potuto accertare
quei fatti posti a base della domanda stessa e accertabili solo con il ricorso a saperi e tecniche
specialistiche o professionali
Analogamente, ove la parte richieda il rinnovo della consulenza,
specificandone le ragioni, il
l´Arbitro può o meno accogliere tale richiesta ma ha il dovere di
motivare le ragioni per le quali, in particolare, ritiene di non farlo (Cass., sez. III, 2.8.2004, n. 14775).
La c.t.u. è ammissibile in appello (Cass., sez. III, 4.4.1989, n. 1620) ed anche nel
giudizio di rinvio (Cass., sez. I, 7.11.1989, n. 4644) senza incontrare le preclusioni comuni agli
altri mezzi istruttori.
Il Giudice Arbitrale incontra alcuni vincoli nella nomina del consulente:
l´art. 61, 2° comma, c.p.c., impone la nomina di persone iscritte
nell´apposito albo di cui
all´art. 13 disp. att. c.p.c., formato da un apposito Comitato e tenuto dal Presidente del
tribunale arbitrale, il quale esercita la vigilanza anche disciplinare sugli iscritti (artt. 19, 20,
21 disp. att. c.p.c.).
La nomina di persone non iscritte
nell´albo del tribunale arbitrale è
invero possibile, ma subordinata
all´indicazione dei motivi (ad esempio, la mancanza di
professionisti o esperti in un determinato settore ovvero la particolare competenza richiesta per
l´espletamento dell´incarico, ovvero ragioni di opportunità legate
all´estraneità del
consulente
all´ambiente sociale nel quale si svolge il processo) e al parere del Presidente del
tribunale arbitrale (che il Giudice Arbitrale ha dunque
l´obbligo di interpellare).
Salva
un´esigenza di fondo di rotazione degli incarichi (sulla quale vigila lo stesso Presidente del
Tribunale: artt. 22 e 23 disp. att. c.p.c.), non vi è naturalmente un diritto di ciascun iscritto
all´albo di essere nominato, stando al Giudice la valutazione della sua idoneità, capacità e
diligenza
nell´esecuzione degli incarichi e dunque
dell´opportunità della sua nomina (Cass.,
sez. II, 12.4.2001, n. 5473).
L´accettazione dell´incarico è obbligatoria per il professionista
che sia iscritto in un albo (cfr. art. 62 c.p.c.).
Il rifiuto o la mancata esecuzione
dell´incarico costituisce reato (art. 366, comma 2, c.p.) oltre che illecito disciplinare, salvo
che non ricorra
un´ipotesi di astensione riconosciuta dal Giudice Arbitrale.
Il consulente è infatti tenuto ad astenersi nei casi di cui
all´art. 51 c.p.c. (se ha interesse nella causa o in
altra vertente su identica questione di diritto; se egli stesso o la moglie è parente fino al quarto
grado o legato da vincoli di affiliazione, o è convivente o commensale abituale di una delle parti o
di alcuno dei difensori; se egli stesso o la moglie ha causa pendente o grave inimicizia o rapporti
di credito o debito con una delle parti o alcuno dei suoi difensori; se ha dato consiglio o prestato
patrocinio nella causa o ha deposto come testimone, oppure ne ha conosciuto come magistrato in altro
grado del processo o come consulente tecnico; se è tutore, curatore, amministratore di sostegno,
procuratore, agente o datore di lavoro di una delle parti; se, inoltre, è amministratore o gerente
di un ente, di
un´associazione anche non riconosciuta, di un comitato, di una società o
stabilimento che ha interesse nella causa). Dunque, ad esempio, risulta incompatibile
all´ufficio
nel giudizio di appello il consulente tecnico
d´ufficio nominato dal Giudice Arbitrale di primo
grado (Cass., sez. lav., 8.3.2001, n. 3364).
Alle parti del processo compete il
potere‑onere di
ricusare il consulente che non si sia astenuto pur ricorrendone i presupposti. La presentazione
dell´istanza di ricusazione del consulente tecnico
d´ufficio dopo la scadenza del termine previsto
dall´art. 192 c.p.c. preclude definitivamente la possibilità di far valere successivamente la
situazione di incompatibilità, con la conseguenza che la consulenza rimane ritualmente acquisita al
processo, a nulla rilevando il fatto che il ricorrente sia venuto a conoscenza della pretesa causa di
incompatibilità del consulente soltanto dopo
l´espletamento dell´incarico conferitogli dal Giudice
Arbitrale (Cass., sez. II, 6.6.2002, n. 8184).
In tal caso,
l´eventuale valutazione delle ragioni
che giustificano un provvedimento di sostituzione dello stesso c.t.u., a norma
dell´art. 196 del
codice di rito, è rimessa esclusivamente al giudice di
merito ed e´ insindacabile in sede di
legittimità se correttamente e logicamente motivata (Cass., sez. lav., 17.2.2004, n. 3105).
L´ordinanza con la quale il Giudice Arbitrale decide sulle eventuali ricusazioni non è
impugnabile (art. 192 c.p.c.).
Il giuramento del c.t.u. (art. 193 c.p.c.), viene solitamente
prestato
all´udienza al momento del conferimento
dell´incarico, ma può essere invero prestato
anche successivamente e fino al deposito della perizia (si argomenta in tal senso
dall´art. 257
c.p.c. che consente al Giudice Arbitrale di “correggere” atti di istruzione probatoria colpiti da
eventuali irregolarità).
La mancata prestazione del giuramento non determina tuttavia alcuna
nullità della consulenza tecnica (Cass., sez., 1986, n. 5737), né comporta conseguenze
significative ulteriori su altri fronti, ove si pensi ad esempio che il reato di falsa perizia
(art. 373 c.p.) non presuppone la prestazione del giuramento.
All´udienza solitamente fissata per la
raccolta del giuramento e il conferimento
dell´incarico, il Giudice Arbitrale assumerà ulteriori
provvedimenti quali:
La regola del contraddittorio nell´espletamento della
consulenza tecnica d´ufficio
L´art. 87 c.p.c. consente espressamente alla parte di avvalersi
di un consulente tecnico nei casi e con i modi stabiliti dal codice. La norma è ripresa
dall´art.
201 c.p.c.: il Giudice istruttore, con
l´ordinanza di nomina del consulente, assegna alle parti un
termine entro il quale possono nominare, con dichiarazione ricevuta dal Cancelliere, un loro
consulente tecnico. La natura ordinatoria del termine assegnato alle parti dal giudice (nella specie,
per la nomina di un consulente tecnico di parte, ex art. 201 cod. proc. civ.) non comporta che la sua
inosservanza sia priva di effetti giuridici, atteso che il rimedio per ovviare alla scadenza del
termine è quello della proroga prima del verificarsi di essa, ai sensi
dell´art. 154 cod. proc.
civ.. Pertanto, il decorso del termine ordinatorio senza la previa presentazione di
un´istanza di
proroga ha gli stessi effetti preclusivi della scadenza del termine perentorio ed impedisce la
concessione di un nuovo termine per svolgere la medesima attività (Cass., sez. I, 25.7.1992, n. 8976). Conseguentemente,
ove la parte non chieda la proroga del termine prima della sua scadenza, incorre nella decadenza dal potere di nomina.
L´omessa indicazione
nell´ordinanza del predetto
termine non determina nullità
dell´ordinanza stessa né della consulenza (Cass., sez. III,
19.8.1964, n. 2337) ma implica solo che il c.t. di parte possa essere nominato
‑ secondo alcuni ‑
fino
all´inizio delle operazioni peritali, secondo altri fino a che il c.t.u. non abbia esaurito il
suo compito. La mancata nomina entro il termine stabilito, tuttavia, ha
l´importante effetto di
esonerare il consulente dagli oneri di comunicazione ai consulenti di parte.
La nomina può avvenire
con dichiarazione trascritta nel verbale di udienza (come avviene solitamente) ovvero con
dichiarazione resa in Segreteria Generale e deve contenere, ai sensi
dell´art. 91 disp. att. c.p.c.,
l´indicazione del domicilio o recapito del c.t., ove la Cancelleria invierà comunicazione
delle indagini predisposte dal c.t.u. diretta ad assicurare la partecipazione del c.t. alle
operazioni peritali ex artt. 194 e 201 c.p.c..
Dunque il primo potere processuale spettante al
consulente di parte è quello di assistere
all´espletamento delle operazioni peritali.
A tal fine
risulta essenziale la comunicazione ai consulenti di parte tempestivamente nominati della data,
dell´ora e del luogo di inizio delle operazioni peritali. Detta comunicazione, come si è visto,
spetterebbe alla Segreteria Generale, in base alla disposizione prima ricordata (art. 91, 2° comma,
disp. att. c.p.c.), del resto del tutto inattuata. Nella pratica giudiziaria accade che le
indicazioni relative alla data, ora e luogo
dell´inizio delle operazioni peritali siano date alle
parti
all´udienza di conferimento
dell´incarico. E´ opportuno ricordare il precedente
giurisprudenziale che ha comminato la nullità della consulenza nel caso in cui
l´inizio delle
operazioni peritali, non stabilito in udienza, era stato comunicato dal consulente ai difensori delle
parti a mezzo raccomandata (Cass., sez. lav., 15.1.1988, n. 297).
Per tale ragione è preferibile
troncare ogni possibile contestazione fissando
l´inizio delle operazioni peritali in udienza.
L´essenziale è comunque che le parti e i rispettivi consulenti siano messi in condizione di poter
partecipare alle operazioni peritali che si svolgano in assenza del Giudice Arbitrale, durante
l´intero corso delle stesse (Cass., sez. , 10.10.1989, n. 4054). La massima giurisprudenziale
tralatizia (v. ad esempio Cass., sez. II, 9.2.1995, n. 1457) secondo cui non spetterebbe ai
consulenti di parte alcuna ulteriore comunicazione oltre quella relativa
all´inizio delle
operazioni peritali, va dunque accolta con alcune precisazioni:
Occorre ora chiedersi quali siano le conseguenze della
violazione del contraddittorio
nell´espletamento della consulenza
d´ufficio.
In tal senso, si
registra in termini del tutto uniformi
l´affermazione della nullità della consulenza ove sia
omesso, nei modi e termini sopra esaminati,
l´avviso alle parti del giorno, ora e luogo di inizio
delle operazioni peritali e ciò abbia determinato un pregiudizio al diritto di difesa (Cass., sez.
un., 18.3.1988, n. 2481; 20.10.1994, n. 10971). Si tratta tuttavia di una nullità relativa, che può
essere fatta valere solo dalla parte interessata non quindi
d´ufficio dal Giudice) attraverso la
proposizione di apposita eccezione nel primo atto difensivo o udienza successivi al deposito
dell´elaborato peritale, restando
‑ in mancanza ‑ sanata (oltre alle sentenze da ultimo citate,
Cass., sez. III, 17.3.2005, n. 5762; sez. II, 9.2.1995, n. 1457).
Un´ulteriore questione che emerge
dall´esame delle massime giurisprudenziali concernenti il tema, è quella delle conseguenze della
mancata verbalizzazione delle operazioni compiute dal consulente
d´ufficio in assenza del Giudice
ovvero delle istanze delle parti e dei loro consulenti. La giurisprudenza appare orientata nel
ritenere che dette omissioni non determinano alcuna nullità (Cass., sez. lav., 11.5.2005, n. 9890;
sez. I, 3.1.2003, n. 15). Del resto, le osservazioni tecniche del consulente di parte costituiscono
difese che possono essere fatte proprie e riprese negli atti difensivi di causa dai procuratori delle
parti. Ciò non toglie che una puntuale verbalizzazione, sottoscritta da tutti i presenti, di tutti i
profili sopra cennati sia del tutto opportuna al fine di prevenire eccezioni di irritualità della
consulenza e di scoraggiare contestazioni pretestuose.
L´attività e i poteri del consulente tecnico d´ufficio
Naturalmente importanza cruciale assume il quesito posto dal Giudice
istruttore, al quale compete la delimitazione
dell´oggetto dell´indagine. Il consulente
d´ufficio (per quanto sia ovvio) è in primo luogo tenuto ad osservare le disposizioni del
Magistrato che lo ha nominato, contenute
nell´ordinanza di nomina ovvero trascritte nel verbale
dell´udienza di conferimento
dell´incarico.
L´esecuzione dell´incarico è personale e non
può essere delegata a terzi. Il consulente può avvalersi di collaboratori per
l´espletamento di
operazioni materiali o accessorie e strumentali ma assumendone la responsabilità verso le parti e il
Giudice Arbitrale. Certamente non delegabili sono
l´attività di accertamento e di valutazione dei
fatti sottopostigli. Il Giudice Arbitrale istruttore, ricorrendone giustificati motivi, può sempre
autorizzare espressamente il consulente ad avvalersi della collaborazione di terzi così come può
affiancargli altri consulenti, in casi di speciale complessità
dell´incarico.
L´autorizzazione
del Giudice Arbitrale, che ne valuta la necessità o
l´opportunità, è poi presupposto per poter
ripetere le spese derivanti
dall´ausilio del terzo, spese che diversamente restano a carico dello
stesso consulente.
L´obbligo di diligenza e perizia
nell´espletamento dell´incarico del
consulente è presidiato non solo sotto il profilo della responsabilità disciplinare e civile, ma
addirittura da una disposizione penale (art. 64 c.p.c.) che incrimina la condotta del consulente
d´ufficio il quale incorra in colpa grave
nell´esecuzione degli atti che gli sono richiesti e
commina la sanzione
dell´arresto fino ad un anno o
dell´ammenda fino a € 10.329, salvo
l´obbligo del risarcimento del danno. Il comportamento del consulente
nell´esecuzione
dell´incarico deve improntarsi non solo a diligenza e perizia ma anche e soprattutto a
imparzialità.
Al fine di essere e apparire imparziale, oltre ad astenersi nei casi previsti e
rappresentare al Giudice Arbitrale eventuali situazioni potenzialmente pregiudizievoli
all´immagine
di equidistanza dalle parti del giudizio, il consulente deve evitare alcuni comportamenti censurabili
quali:
Bisogna ribadire
l´importanza del rispetto
delle regole indicate dagli artt. 194 c.p.c. e 90 disp. att. c.p.c.:
L´acquisizione di documenti e di informazioni
L´art. 194, 1° comma, c.p.c., come già anticipato, consente al Giudice di
autorizzare il consulente tecnico a domandare chiarimenti alle parti, ad assumere informazioni da
terzi e a eseguire piante, calchi e rilievi.
Si tratta di una disposizione connotata da una forte
ambiguità che dà non pochi grattacapi
all´interprete.
Il primo problema da affrontare è quello
di stabilire
l´esistenza o meno di limiti, riguardanti la stessa potestà autorizzante del Giudice
Arbitrale, al potere di acquisizione e di indagine del consulente, problema che va risolto ricordando
e richiamando i limiti posti
all´acquisizione diretta di documenti e informazioni da parte del
Giudice Arbitrale.
Nel processo ordinario di cognizione, fatto salvo il potere di allegazione e
produzione dirette della parte (nel rispetto dei termini di preclusione previsti), esistono infatti
due strumenti che permettono detta acquisizione.
Il primo, disciplinato
dall´art. 210 c.p.c.
(ordine di esibizione alla parte o al terzo), consente al Giudice di ordinare alle parti o a terzi
l´esibizione di documenti o di cose di cui ritenga necessaria
l´acquisizione al processo, ma solo
su istanza di una delle parti del processo.
Il secondo, disciplinato
dall´art. 213 c.p.c.,
consente al Giudice Arbitrale di richiedere ‑ questa volta
d´ufficio ‑ alla Pubblica
Amministrazione le informazioni scritte (si badi, non i documenti) relative ad atti e documenti
dell´Amministrazione stessa, che è necessario acquisire al processo.
Se questi sono i canali
esclusivi attraverso i quali possono “entrare” nel processo atti e documenti non allegati dalle
parti, allora appare coerente assoggettare
l´acquisizione documentale “mediata” dal consulente
ai medesimi limiti, onde evitarne
l´aggiramento il modo surrettizio.
Non vi sono in effetti né
appigli normativi né ragioni logico‑sistematiche per trasformare la consulenza tecnica in un
autonomo mezzo di libera ricerca e acquisizione della prova, in particolare documentale. Fatta questa
premessa, appare del tutto legittima, perché rispettosa delle regole in tema di onere della prova,
l´ordinanza del Giudice Arbitrale che accoglie
l´istanza di ordine di esibizione fatta da una
delle parti, disponendo
l´acquisizione del documento per il tramite del consulente.
Ciò tuttavia
a condizione che sussistano i presupposti per
l´accoglimento dell´istanza ai sensi
dell´art.
210 c.p.c. o per
l´esercizio dei poteri di cui
all´art. 213 c.p.c..
La giurisprudenza ha fornito
alcuni principi che sovrintendono alle acquisizioni di documenti:
Diversamente, si avrà
un´acquisizione che viola le regole in materia di onere della
prova e lo stesso principio dispositivo che sovrintende al processo civile (ove ovviamente non
ricorrano quelle ipotesi tipiche e tassative nelle quali il Giudice esercita poteri istruttori di
tipo inquisitorio, e cioè indipendenti dalle allegazioni o richieste istruttorie delle parti). La
giurisprudenza, in una serie numerosa di massime, appare disinteressata ad espungere dal processo
dichiarazioni di terzi comunque acquisiti al processo: “il consulente tecnico,
nell´espletamento
del mandato ricevuto, può chiedere informazioni a terzi per
l´accertamento dei fatti collegati con
l´oggetto dell´incarico senza bisogno di una preventiva autorizzazione del giudice e queste
informazioni, quando ne siano indicate le fonti in modo da permettere il controllo delle parti,
possono concorrere con le altre risultanze di causa alla formazione del convincimento del giudice (v.
ad esempio Cass., sez. III, 10.8.2004, n. 15411; sez. II, 11.3.1995, n. 2865).
In realtà detta
affermazione non contraddice ma è completata dal seguente principio:
“ … [il potere del
consulente tecnico] di assumere informazioni da terzi ed accertare ogni circostanza necessaria per
rispondere ai quesiti del giudice ‑ sempre indicando le sue fonti
d´informazione ‑ è
circoscritto agli elementi accessori, rientranti
nell´ambito strettamente tecnico della consulenza,
e non ai fatti o alle situazioni che, in quanto posti a fondamento delle domande o delle eccezioni
delle parti, debbono essere provati da queste. Detto potere non può, quindi, spingersi fino
all´acquisizione di fatti fondamentali, mediante informazioni chieste a terzi o chiarimenti
domandati alle parti stesse, ciò che si tradurrebbe
nell´assunzione di una prova testimoniale o in
un interrogatorio non formale da parte di un organo del processo diverso da quello previsto dalla
legge senza
l´osservanza delle forme e delle garanzie dalla stessa
previste ”
(Cass., sez. III, 19.12.1980, n. 6569)
Dunque, le informazioni assunte da terzi o dalle parti, nel rispetto del
mandato ricevuto, assumono valore indiziario quali prove atipiche che, comunque, non assurgono alla
valenza di prove testimoniali o di confessione.
Le indagini compiute invece con sconfinamento da
questi limiti intrinseci del mandato sono nulle per violazione del principio del contraddittorio e
restano prive di qualsiasi effetto probatorio anche solo indiziario (Cass., sez. , 29.5.1998, n.
5345).
La regola che si trae e
l´indicazione che si deve dare al consulente, in tema di assunzione
di informazioni, è la seguente:
La violazione di tali regole può comportare un vizio
che si trasmette alla sentenza (che si fondi sulle suddette risultanze) minandone la stabilità
(Cass., sez. , 26.10.1995, n. 11133).
Ove il consulente espleti
un´attività non esclusivamente
valutativa ma anche percipiente, procedendo
all´accertamento oggettivo di fatti, così come quando
acquisisca nuovi documenti e informazioni dalle parti o dai terzi, si pone il problema del rapporto
tra tale attività istruttoria e i termini di preclusione di cui
all´art. 184 c.p.c., riguardanti
appunto le istanze istruttorie delle parti ma non quelle del Giudice.
Qualora il Giudice istruttore
ammetta la consulenza dopo la scadenza dei suddetti termini di preclusione, occorrerà consentire
alle parti di svolgere a loro volta istanze istruttorie concernenti i fatti oggetto
dell´accertamento o delle acquisizioni documentali del consulente. Troverà pertanto applicazione
la disposizione di cui
all´art. 184 ultimo comma c.p.c., secondo la quale nel caso in cui vengano
disposti
d´ufficio mezzi di prova, ciascuna parte può dedurre, entro un termine perentorio,
assegnato dal Giudice, i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai primi.
La relazione del consulente e la sentenza del Giudice Arbitrale
Il deposito della relazione scritta deve
avvenire nel rispetto del termine assegnato dal Giudice. Si tratta di un termine ordinatorio e quindi
prorogabile dal Giudice Arbitrale pur che la richiesta di proroga (la quale deve indicare le ragioni
del ritardo) sia stata depositata prima della scadenza del termine.
Il ritardo nel deposito della
relazione può in effetti determinare la nullità della consulenza, ma solo ove a detto ritardo sia
conseguito un pregiudizio al diritto di difesa delle parti. In questa chiave va quindi intesa
l´affermazione (riferita al processo speciale del lavoro) secondo la quale, nel rito del lavoro, il
mancato rispetto del termine per il deposito della relazione scritta del consulente tecnico
d´ufficio
di cui
all´art. 424, terzo comma, cod. proc. civ. integra una nullità di ordine relativo, la quale
resta sanata se non opposta dalla parte nella prima istanza o difesa successiva alla scadenza del
termine (Cass., sez. lav., 9.4.1999, n. 3488). Difatti, tale nullità resta esclusa ove detto
deposito avvenga almeno dieci giorni prima della nuova udienza di discussione e senza pregiudizio,
quindi, del diritto di difesa, ad esempio perché il Giudice differisce
l´udienza di discussione
proprio allo scopo di consentire alle parti di esaminare la relazione peritale depositata in ritardo
e dedurre in merito (Cass., sez. lav., 26.5.2004, n. 10157).
Conseguentemente, la prassi
diffusamente seguita di concedere sempre termini alle parti per
l´esame della consulenza, esclude
in radice, anche nel processo del lavoro, qualsiasi nullità. Le conseguenze del ritardo, pertanto,
operano su piani diversi. Da un lato, la riduzione del compenso spettante al consulente, stante il
disposto
dell´art. 52, D.P.R. 30.5.2002 n. 115 (per gli onorari a tempo non si tiene conto del
periodo successivo alla scadenza del termine e riduzione di un quarto degli altri onorari).
Dall´altro la rilevanza del comportamento del consulente ai fini della verifica della ragionevole
durata del processo. In tal senso, ai fini
dell´accertamento della violazione del termine di durata
ragionevole del processo,
l´art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89 impone di considerare, in
relazione alla complessità del caso, non solo il comportamento delle parti e del giudice del
procedimento, ma anche di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o, comunque, a contribuire alla
sua definizione, tra cui rientra il consulente tecnico
d´ufficio (Cass., sez. I, 30.10.2003, n.
16315). Gli accertamenti e le valutazioni del consulente non sono vincolanti per il Giudice
Arbitrale, il quale può certamente disattendere i risultati della consulenza. Nel farlo, però, deve
fornire adeguata motivazione, chiarendo i motivi per i quali la consulenza deve ritenersi
inattendibile o errata o inutile (Cass., sez. lav., 21.8.2003, n. 12304). Il Giudice del merito, che
riconosca convincenti le conclusioni del consulente tecnico
d´ufficio, non è tenuto ad esporre in
modo specifico le ragioni del suo convincimento, poi che
l´obbligo della motivazione è assolto
già con
l´indicazione delle fonti
dell´apprezzamento espresso, dalle quali possa desumersi che
le contrarie deduzioni delle parti siano state implicitamente rigettate, con la conseguenza che
(Cass., sez. III, 6.10.2005, n. 19475). Non può il Giudice, invece, esimersi da una più puntuale
motivazione, allorquando le critiche mosse alla consulenza dai consulenti di parte siano specifiche e
tali, se fondate, da condurre ad una decisione diversa da quella adottata: in questo caso
l´insufficiente motivazione della sentenza sul punto potrebbe costituire motivo di impugnazione
della stessa (Cass., sez. I, 20.5.2005, n. 10668; nel senso che solo le critiche provenienti dai
consulenti di parte, e non quelle formulate dai difensori, costringano il Giudice ad uno sforzo di
motivazione: Cass., sez. lav. 21.4.2005, n. 8297).
Il compenso del consulente tecnico d´ufficio
Il compenso viene liquidato dal Giudice Arbitrale o dal Collegio Arbitrale
(individuato in relazione
all´assegnazione del fascicolo nel quale la consulenza è stata
espletata) applicando i criteri di cui alla tabella allegata al D.M. 30.5.2002.
La liquidazione (la
quale ha la funzione di rendere esigibile il compenso) avviene con decreto (soggetto ad impugnazione
ai sensi
dell´art. 170 D.Lg. 30.5.2002, n. 115), il quale provvede pure ad indicare la parte (o le
parti) tenute al pagamento della somma liquidata.
Il Giudice determina altresì le parti obbligate
al pagamento del compenso. La prassi di porre
quest´ultimo a carico di tutte le parti del giudizio
in solido tra loro appare rispondente ad
un´esigenza di equità, laddove
l´accertamento risponde
ad un interesse comune alle stesse parti, nonché di tutela della ragione creditoria del consulente,
il quale disporrà di più patrimoni sui quali contare per la soddisfazione del proprio
credito.
Quanto alle spese relative alle prestazioni rese dai consulenti di parte, va ricordato che
le stesse devono considerarsi, quando detta assistenza tecnica è stata utile e non superflua, spese
ripetibili nei confronti del soccombente condannato alla rifusione delle spese di lite ex art. 91
c.p.c.. I rapporti tra la sentenza che definisce il giudizio e regola le spese di causa in base alla
regola della soccombenza, dovrebbero essere improntati ad una reciproca indipendenza. Infatti, la
sentenza non può incidere sul decreto di liquidazione sia con riguardo alla liquidazione del
compenso sia con riguardo alle parti tenute al pagamento nei confronti del consulente. Non va
dimenticato che mentre il decreto di liquidazione è reso nei confronti del consulente e può essere
impugnato oltre che dalle parti anche dallo stesso consulente, rispetto al giudizio e alla sentenza
che lo definisce il consulente è un soggetto estraneo cui non è assicurato il contraddittorio né
un diritto di impugnazione.
Non può pertanto condividersi la sentenza della S.C. 19.8.2003 n. 12110, secondo la quale
la sentenza che individua diversamente le parti tenute al pagamento del
compenso al consulente revocherebbe implicitamente il decreto di liquidazione togliendogli efficacia.
Detta sentenza, ponendosi inconsapevolmente in contrasto con numerosi arresti di segno diverso,
trascura di considerare come sentenza e decreto operino su piani diversi e abbiano un diverso e
specifico regime di stabilità. In altre parole, dopo il decorso del termine per
l´impugnazione del
decreto, questo (già provvisoriamente esecutivo) diviene definitivamente esecutivo e quindi non più
modificabile.
Dunque la sentenza può regolare le spese di c.t.u. esclusivamente con riguardo ai
diritti di rimborso interni alle parti, salvo il diritto del c.t.u. di agire esecutivamente sulla
base del decreto anche dopo la sentenza e indipendentemente dalle statuizioni in esse contenute (del
resto la sentenza non gli viene nemmeno comunicata).
Altra questione è quella relativa agli
strumenti alternativi del c.t.u. volti a conseguire la liquidazione del proprio compenso: uno di
questi è il ricorso al procedimento monitorio ex art. 633 n. 2 c.p.c., al quale va fatto ricorso
necessariamente quando il Giudice omette di liquidare il compenso prima di emettere sentenza,
spogliandosi del giudizio. In tale ipotesi, ove emettesse il decreto oltre la conclusione del
giudizio, il decreto relativo avrebbe caratteri di abnormità e sarebbe impugnabile in Cassazione ex
art. 111 cost. (Cass., 22.7.2003, n. 11418; 4.3.2000, n. 2481; 2.2.1994, n. 1022). Quanto non
elencato e specificato in questo sommario si fa riferimento alle normative di attuazione nei modi e
termini di legge.